C’era una volta un giovane allievo che giunse al tempio tra le montagne, con gli occhi pieni d’ambizione e il cuore impaziente.
«Voglio imparare il kung fu,» disse.
«Voglio diventare forte. Voglio diventare veloce. Voglio imparare… in fretta.»
Il maestro, seduto sul bordo del cortile, non rispose. Sollevò appena lo sguardo, poi tornò al suo tè.
Il ragazzo attese. Nessuna parola. Nessuna lezione. Solo il vento tra i pini e il rumore del bambù che si piegava sotto la neve.
I giorni divennero settimane. Il maestro osservava, camminava, talvolta indicava un esercizio con un cenno, ma non parlava mai. Il ragazzo cadeva, sbagliava, si feriva. Ogni sera tornava con il corpo indolenzito e l’animo acceso da mille domande. Ma il maestro restava in silenzio.
«Perché non mi insegni davvero?» sbottò una notte.
«Perché non mi parli? Non mi correggi? Non mi guidi?»
Il maestro lo guardò. E, come sempre, non disse nulla.
Il ragazzo, furioso, pensò di andarsene. Ma il suo cuore non riusciva a voltare le spalle a quel mistero. Rimase.
Col tempo, i gesti diventarono più fluidi. I colpi più precisi. La mente, più calma. Ogni caduta gli insegnava a rialzarsi. Ogni silenzio, a osservare. Ogni errore, a comprendere.
E un giorno — non seppe dire quando — si accorse di conoscere movimenti che nessuno gli aveva mai spiegato. Di sentire il flusso del combattimento prima ancora che iniziasse. Di saper dominare la propria rabbia, il proprio ego, la propria paura.
Tornò allora dal maestro, colmo di gratitudine.
«Ora capisco. Il tuo silenzio era la mia vera lezione.»
Il maestro sorrise. Per la prima volta, parlò.
«Se avessi parlato, avresti ascoltato me. Ma nel silenzio, hai imparato ad ascoltare te stesso.»